Nulla è brutto se raccontato bene

 

La magia della coccinella e la forza delle storie

C’è un piccolo insetto che da sempre accompagna la nostra infanzia: La Coccinella. È l’unico che lasciamo passeggiare sulle nostre dita senza paura, anzi, con un sorriso. Sin da bambini ci hanno insegnato che porta fortuna. E così, quel piccolo guscio rosso a pois neri è diventato un simbolo di fiducia, di speranza e di bellezza. Ma in realtà, la coccinella ci insegna molto di più: nulla è brutto, se raccontato bene. Anche ciò che potrebbe spaventare o sembrare insignificante.  È lo stesso che accade con le storie di Abileconte.it. Raccontare il vissuto delle persone con delicatezza, luce e rispetto significa restituire dignità, speranza e coraggio. Significa trasformare ferite in forza, limiti in possibilità, dolore in insegnamento. Ogni racconto è come una coccinella che si posa sulla mano: piccolo, fragile, ma capace di trasmettere una sensazione di meraviglia e di fortuna a chi lo accoglie. Abileconte.it è proprio questo: ricordare al mondo che la vita, anche quando sembra dura, porta con sé bellezza, se sappiamo fermarci ad ascoltarla e a raccontarla. Perché la vera fortuna non è aspettare che arrivi una coccinella.
La vera fortuna è imparare a guardare la vita con gli occhi di chi sa trasformare ogni storia in un dono. 

Il bisogno che nessuno ascolta

 

Perché nessuno ci chiede di cosa abbiamo bisogno?

Ci sono silenzi che pesano più di mille parole. Sono i silenzi che circondano chi vive una condizione di disabilità o di fragilità. Non sono solo i limiti del corpo o della mente a rendere la vita più complessa, ma l’invisibilità agli occhi degli altri.

Ogni giorno, migliaia di persone affrontano sfide enormi: muoversi in una città non pensata per loro, chiedere un aiuto senza sentirsi un peso, trovare la forza di sorridere mentre dentro il cuore grida. Eppure, raramente qualcuno si ferma a chiedere: “Di cosa hai bisogno?”.

Il supporto psicosociale non è un lusso, è un diritto. Non significa solo ricevere cure mediche o assistenza pratica, ma anche avere ascolto, comprensione, empatia. Significa sentirsi riconosciuti come esseri umani con sogni, paure, desideri.

Troppo spesso la società guarda alla disabilità con pietà o con imbarazzo, dimenticando che ciò che serve non è compatimento ma possibilità: la possibilità di esprimersi, di lavorare, di amare, di partecipare. Chi vive in difficoltà non chiede privilegi, chiede solo pari dignità e la libertà di poter scegliere.

Dietro ogni fragilità c’è una forza che lotta, ma anche la stanchezza di chi deve dimostrare ogni giorno di valere. C’è la solitudine di chi vorrebbe raccontare le proprie necessità senza sentirsi giudicato. C’è il dolore invisibile di chi non trova spazi per dire: “Ho bisogno di te, ho bisogno di voi”.

Un vero supporto psicosociale nasce dal guardarsi negli occhi e riconoscersi, senza etichette, senza barriere. Nasce dal semplice gesto di chiedere, con umiltà e rispetto: “Come posso aiutarti?”. Forse non sempre sapremo offrire soluzioni, ma offrire presenza, ascolto e solidarietà può già cambiare un destino. Perché la più grande ferita non è la disabilità, ma L’indifferenza

 Questo non è un articolo ma una parte di me 

Fragilità e forza: il lavoro visto con gli occhi di chi vive la disabilità

Disabili e lavoro: un cammino pieno di ostacoli ma anche di speranza

Qusto è un tema che ho gia affrontato in un altro articolo. In quella occasione mi sono soffermato sul diritto al lavoro e sulla sia dignità come lavoratore. Oggi invece voglio parlarvi dell suo aspetto emotivo. Nessuno ti chiede come stia veramente.. le persone commettono l’errore di concentrarsi solo sulla maschera che indossiamo ogni giorno.

Entrare e restare nel mondo del lavoro è difficile per molte persone. Ma per chi vive con una disabilità, questo percorso spesso diventa ancora più complicato. Le difficoltà iniziano già dalla ricerca di un’occupazione. I colloqui possono trasformarsi in momenti carichi di ansia: non sempre i selezionatori hanno la sensibilità di guardare oltre la disabilità e riconoscere prima di tutto le competenze. Molti datori di lavoro temono costi aggiuntivi, assenze o cali di produttività. Spesso manca una reale conoscenza di ciò che una persona disabile può portare in termini di professionalità, impegno e talento. Anche dopo l’assunzione, gli ostacoli non finiscono. Ci sono barriere architettoniche che rendono faticoso o impossibile raggiungere il posto di lavoro, spazi non accessibili o strumenti non adatti. Ma le barriere più dure non sono solo fisiche: sono culturali. La diffidenza, i pregiudizi, le battute fuori luogo possono creare isolamento e rendere l’ambiente pesante. A tutto questo si aggiunge la fragilità emotiva di chi, ogni giorno, deve dimostrare il doppio per sentirsi “accettato”. C’è chi si sente un peso, chi ha paura di perdere il lavoro per un peggioramento della salute, chi rinuncia persino a candidarsi per non affrontare sguardi giudicanti. Eppure, laddove ci sono apertura, empatia e inclusione, i risultati sorprendono. Un ambiente di lavoro che accoglie la diversità diventa più ricco, creativo e umano. Molti lavoratori con disabilità sviluppano una resilienza e una capacità di adattamento che diventano risorse preziose per l’intera squadra. Il diritto al lavoro non è solo un articolo di legge: è dignità, indipendenza, possibilità di sentirsi parte della società. Per questo servono politiche concrete, aziende coraggiose e soprattutto uno sguardo nuovo, capace di vedere la persona prima della disabilità. Il lavoro è un ponte verso l’autonomia e la realizzazione personale. Nessuno dovrebbe sentirsi escluso da questo cammino.

 

Invisibili, ma non Assenti

L’Assenza che si sente per strada

Quando cammino per strada, c’è qualcosa che mi colpisce sempre: la quasi totale assenza di persone in carrozzina. Non credo davvero che non ci siano. Anzi, so bene che ci sono. Ma la verità è che non hanno le condizioni per uscire, per vivere la città come facciamo noi, con leggerezza e autonomia. Mi basta osservare per capirlo: una rampa che non c’è, un marciapiede troppo stretto, un negozio con tre scalini all’ingresso e nessuna alternativa. Persino le piccole cose come un bar accogliente all’angolo diventano muri invisibili che ti impediscono di entrare. E allora l’uscita non è più un piacere, diventa una lotta. Penso spesso a quanto dev’essere frustrante dover chiedere aiuto per ogni minimo spostamento. Per prendere un caffè, per fare la spesa, per attraversare la strada. Quella libertà che molti di noi danno per scontata, per altri è un lusso negato. E così le strade restano vuote di carrozzine, e sembra che le persone disabili non ci siano. Ma non è vero. Sono a casa, costrette a guardare la vita scorrere dalle finestre. Non per scelta, ma per colpa delle barriere che noi abbiamo lasciato lì, giorno dopo giorno, senza pensare a quanto possano escludere. A volte mi chiedo: come sarebbe la mia città se davvero fosse accessibile? La immagino piena di incontri, di diversità visibili, di sorrisi scambiati all’uscita di un negozio o in fila alla posta. Una città più viva, più giusta, più umana. Forse l’assenza che sento per strada non è un vuoto, ma un richiamo: un invito a non dimenticare chi non può esserci. Perché l’invisibilità non è mai una condizione naturale, è sempre il risultato di uno sguardo che non vuole vedere o di una società che non si è ancora davvero aperta.