Invisibili, ma non Assenti

L’Assenza che si sente per strada

Quando cammino per strada, c’è qualcosa che mi colpisce sempre: la quasi totale assenza di persone in carrozzina. Non credo davvero che non ci siano. Anzi, so bene che ci sono. Ma la verità è che non hanno le condizioni per uscire, per vivere la città come facciamo noi, con leggerezza e autonomia. Mi basta osservare per capirlo: una rampa che non c’è, un marciapiede troppo stretto, un negozio con tre scalini all’ingresso e nessuna alternativa. Persino le piccole cose come un bar accogliente all’angolo diventano muri invisibili che ti impediscono di entrare. E allora l’uscita non è più un piacere, diventa una lotta. Penso spesso a quanto dev’essere frustrante dover chiedere aiuto per ogni minimo spostamento. Per prendere un caffè, per fare la spesa, per attraversare la strada. Quella libertà che molti di noi danno per scontata, per altri è un lusso negato. E così le strade restano vuote di carrozzine, e sembra che le persone disabili non ci siano. Ma non è vero. Sono a casa, costrette a guardare la vita scorrere dalle finestre. Non per scelta, ma per colpa delle barriere che noi abbiamo lasciato lì, giorno dopo giorno, senza pensare a quanto possano escludere. A volte mi chiedo: come sarebbe la mia città se davvero fosse accessibile? La immagino piena di incontri, di diversità visibili, di sorrisi scambiati all’uscita di un negozio o in fila alla posta. Una città più viva, più giusta, più umana. Forse l’assenza che sento per strada non è un vuoto, ma un richiamo: un invito a non dimenticare chi non può esserci. Perché l’invisibilità non è mai una condizione naturale, è sempre il risultato di uno sguardo che non vuole vedere o di una società che non si è ancora davvero aperta.

Antinea III: quando il mare diventa un abbraccio che include tutti

Quando le vele parlano di speranza: nasce Antinea III”

Sulla riva di Savona, nella Darsena accogliente di una città che ha dato il suo cuore alla cultura e al mare, ieri  mercoledì 3 settembre 2025  è stata inaugurata Antinea III, una barca a vela accessibile a tutte le persone, pensata per regalare libertà e bellezza anche a chi vive con disabilità fisiche o cognitive . È una giornata che sa di speranza, di onde che diventano ponti verso nuove possibilità. Antinea III non è un semplice veliero: è un gesto concreto di inclusione, un invito a riscrivere il significato di autonomia. Promossa dall’Assonautica Provinciale di Savona, l’iniziativa ha radici profonde: l’imbarcazione, acquistata nel 1995 da Roberto Pisani, è stata generosamente donata dopo trent’anni per dar vita a un progetto che trascende il tempo e i confini . Perché una barca a vela? Lo spiega  il Presidente di Assonautica, Giovanni Bauckneht: la vela non è solo un modo di navigare, ma un atto che unisce e migliora l’autostima. L’esperienza è aperta ad adulti, bambini e ragazzi, per i quali l’uscita in mare diventa una preziosa scuola di vita. Ogni uscita è una narrazione del mare, un’eco di antichi saperi e di responsabilità condivisa . Il progetto non è isolato, ma si inserisce in un orizzonte più grande di solidarietà: Bauckneht cita con orgoglio altre iniziative, come quella del brigantino Nave Italia, che porta a vela ragazzi con difficoltà, riaffermando ogni volta che il mare ha il potere di rigenerarci . Con Antinea III, la vela diventa simbolo. Simbolo di una società che sceglie di accogliere, di restituire dignità, di rimettere in gioco la bellezza ― quella potenza che si rinnova ogni volta che un sorriso si apre tra le onde. Questa barca è un’occasione per tessere comunità: per attraversare storie, condividere sapere, imparare la cura e sperimentare un mare che insegna libertà e responsabilità.

In un mondo che spesso isola, Antinea III traccia rotte di inclusione. Qui il vento non è solo forza motrice, ma messaggero di speranza. Qui il mare non separa, ma unisce. E qui ogni persona può tornare a «navigare» verso sogni che forse credeva lontani.

Essere Disabili: Imparare a Chiedere

Ho Bisogno di Te

Essere disabili significa pure imparare a chiedere.  C’è un filo sottile che lega la dignità e la fragilità, il desiderio di autonomia e la necessità di dipendere dagli altri. Spesso chi convive con una disabilità si trova a camminare proprio su quel filo, in equilibrio tra due mondi che la società fatica ancora a comprendere fino in fondo. “Essere disabili significa pure imparare a chiedere.” Questa frase custodisce un grande insegnamento: la richiesta d’aiuto non è una resa, ma un atto di coraggio.

Viviamo in una cultura che esalta l’indipendenza come se fosse l’unico traguardo possibile. Ma la verità è che nessuno di noi è davvero indipendente: ci sorreggiamo a vicenda, invisibilmente, ogni giorno. Per una persona disabile, questo legame diventa più visibile, più tangibile. Non è debolezza, ma consapevolezza: la forza sta proprio nel riconoscere che il nostro valore non diminuisce quando tendiamo la mano a qualcuno. Imparare a chiedere significa accettare la propria umanità. Significa comprendere che dietro ogni richiesta c’è un bisogno autentico, e dietro ogni risposta ci può essere amore, solidarietà, cura. È un cammino che insegna a spogliarsi della vergogna, a trasformare l’imbarazzo in dialogo, la paura di pesare sugli altri in una nuova forma di fiducia reciproca.

Chiedere è anche donare: a chi riceve la richiesta viene data l’opportunità di essere utile, di entrare in relazione, di abbattere muri di solitudine. È un invito a scoprire che la vulnerabilità non divide, ma unisce. Forse, allora, dovremmo tutti imparare da chi vive con una disabilità. Imparare che non c’è niente di più umano, e di più forte, del dire: “Ho bisogno di te”

 

 

Il nuoto: dallo sport al dono che può salvare la vita

Un dono che resta per sempre

Il nuoto: dallo sport al dono che può salvare la vita C’è un momento nella vita di ognuno di noi in cui ci si ritrova davanti all’acqua. Può essere una giornata d’estate al mare, un tuffo in piscina con gli amici, una gita al lago o anche solo una passeggiata vicino a un fiume. L’acqua è ovunque: ci attrae, ci rinfresca, ci fa sentire liberi. Ma può diventare anche un pericolo, se non sappiamo come affrontarla. Ecco perché imparare a nuotare non è solo un’attività sportiva, ma una vera e propria abilità di vita.

L’acqua come amica, non come nemica. Saper nuotare significa trasformare l’acqua da nemica potenziale ad alleata. Significa sentirsi liberi di galleggiare, di muoversi con sicurezza, di respirare senza paura. È un po’ come imparare a camminare di nuovo, ma in un ambiente diverso. Tante volte sentiamo parlare di incidenti che si sarebbero potuti evitare se solo qualcuno avesse saputo stare a galla, mantenere la calma, muovere poche bracciate sicure verso la riva? Il nuoto, in questo senso, è un salvavita. Non serve diventare campioni olimpici: basta imparare i gesti fondamentali per non essere mai in balia dell’acqua. Lo sport che abbraccia il corpo e la mente, ma il nuoto è molto più di una tecnica di sopravvivenza. È uno degli sport più completi che esistano. È adatto a tutte le età, dal bambino che scopre il mondo al nonno che vuole mantenersi attivo. L’acqua accoglie, sostiene, rilassa. Ogni bracciata diventa un respiro di libertà, ogni vasca una piccola vittoria contro lo stress e la fatica quotidiana. Nuotare è un dialogo silenzioso con se stessi, un momento in cui i pensieri si sciolgono come onde. Imparare a nuotare significa anche imparare a non arrendersi davanti alle paure. Molti iniziano con il timore di immergere il viso, di perdere l’appoggio del fondo. Poi, passo dopo passo, si scopre che il corpo sa galleggiare, che il respiro si può controllare, che l’acqua non è un abisso ma una seconda casa. È una lezione che va oltre lo sport: insegna fiducia, coraggio, resilienza.

Chi sa nuotare porta con sé un dono che non si perde mai. È la libertà di entrare in acqua senza timori, di godere pienamente di un tuffo, di poter vivere esperienze come il mare aperto, il surf, le immersioni. Ma soprattutto, è la certezza di avere nelle proprie mani una competenza che può salvare la propria vita o quella di qualcun altro.